Il presente articolo è stato pubblicato, per la prima volta, nel mese di maggio 2013.
Il 3 marzo 2013 lo staff di progetto I.L.I.E. si è recato in visita ai luoghi in cui 50 anni fa accadde la terribile tragedia del Vajont. A farci da guida sono stati Micaela Coletti e Gino Mazzorana, rispettivamente presidente e vice presidente del Comitato per i Sopravvissuti del Vajont.
La prima tappa è stata al cimitero monumentale di Fortogna, frazione di Longarone, dove sono sepolte le 2000 vittime (circa) del disastro. Il camposanto, ristrutturato pochi anni fa, ha una facciata che ricorda la diga, presenza costante nella storia anche recente del paese. L’interno è una distesa erbosa di ampiezza non sospetta, disseminata di cippi bianchi tutti uguali, allineati in un silenzio sacro.
L’omogeneità, voluta probabilmente per esigenze estetiche, non è però completa: mentre su alcune pietre compare scolpito il nome del defunto, la maggior parte di esse è totalmente liscia, perché moltissimi cadaveri non furono mai riconosciuti (o addirittura mai “ricomposti” integralmente). L’uniformità del luogo santo si interrompe per ospitare alcune sculture celebrative, le lapidi di un defunto illustre (il vescovo Giacchino Muccin) e dei Vigili del Fuoco che persero la vita svolgendo la loro missione; oltre a una chiesetta commemorativa che su una struttura a forma di onda riporta l’elenco delle vittime del Vajont. Il luogo, che fin da subito invita al raccoglimento, stupisce per le sue dimensioni, per il silenzio evocatore di antiche grida, per la dolorosa sproporzione tra gli steli nominati e quelli anonimi, di gran lunga superiori. Inoltre, basta leggere alcune delle epigrafi per accorgersi che l’impeto furioso portò con sé molti bambini e persino neonati, fermando il tempo a Longarone, rubandone il presente di allora e anche il futuro.
Fa male anche vedere quanto siano scarsi i visitatori al cimitero. Ci si aspetterebbe di incontrare molti parenti dei defunti di domenica mattina, momento generalmente adibito a impegni spirituali. Ma forse i parenti non ci sono più. Forse sono tutti sepolti, sotto la stessa terra che inghiottì famiglie intere.
Il viaggio è proseguito con la visita ai due paesi soprastanti la diga: Erto e Casso. I centri abitati, che costituiscono un unico comune, sono abbarbicati sulle rocce che racchiudono la valle del Vajont. Entrambi hanno mantenuto i nuclei dell’epoca ben conservati negli edifici tipici di montagna, circondati dalle zone residenziali più recenti. Grazie alla loro altitudine, furono risparmiati dall’onda di morte (che arrivò comunque a lambire le prime case di Casso). Dall’alto, questi borghi offrono una visione inequivocabile della frana del monte Toc, in tutta la sua ampiezza.
È impressionante rendersi conto che i segni della tragedia sono ancora ben evidenti a distanza di anni. La parete della montagna mostra chiaramente lo squarcio lasciato da quei 270 milioni di metri cubi di terra che sprofondarono nel bacino sottostante. I numeri scritti sulla pagina hanno scarso valore, mentre la ferita lasciata sul versante parla esplicitamente. Soltanto guardando dal vivo si può immaginare la quantità di detriti che si è staccata e che è caduta pesantemente nel lago artificiale. Dall’alto si può concepire come siano andate veramente le cose: il terribile boato, la pressione sull’acqua, l’onda altissima, la furia del vento… in un istante solo fango, morte e desolazione. In tormentoso contrasto con la pace che oggi regna sulle montagne, bellissime nei loro profili aguzzi, inconsapevoli della tragedia.
L’ultima meta è stata la diga vera e propria, rimasta quasi intatta quel 9 ottobre 1963. L’altezza del coronamento è eloquente, anche se oggi il bacino contiene, al posto dell’acqua, ammassi di rocce e terra. La chiesetta costruita accanto riprende la forma della diga, come l’elenco delle vittime. Per non dimenticare… Tutto sembra ricordare quei terribili momenti. Eppure, si ha la sgradevole sensazione che il disastro non abbia insegnato nulla. Perché non ci sono parapetti saldi sul precipizio, perché la cappella è troppo vicina al baratro, perché volendo si potrebbe scendere all’interno dell’ex bacino d’acqua… dove tuttora la frana si muove: infatti sono visibili smottamenti e numerosi sassolini che rotolano a valle anche durante la nostra breve permanenza sul posto. E pensare che qualcuno ha avanzato la proposta di costruire un’altra diga nei dintorni. Sarebbe il massimo dell’assurdità.
Al ritorno, abbiamo visitato il centro di Longarone, ben diverso da quello riportato nelle foto storiche, e la nuova chiesa, che ovviamente ha la forma di un’onda. Perché non si può, non sarebbe giusto, cancellare quello che è successo. Anche se il paese è stato ricostruito e la vita ha ricominciato a scorrere.
Testo di: Michele Tonin
Foto di: Silvia Salgari, Elena Salgari e Filippo Zerman