La sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39, dalle pendici del monte Toc, 300 milioni di metri cubi di roccia precipitarono alla velocità di 80 km/ora nel bacino artificiale della diga del Vajont, all’epoca la più alta d’Europa.
La frana sollevò una immensa onda d’acqua e detriti che si abbatterono sui paesi di Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Fae’, Erto, Casso e sulle frazioni di San Martino, Pineda, Spesse, Patata, Il Cristo.
Complessivamente, la tragedia causò la morte di oltre 2000 persone.[www.sopravvissutivajont.org]
È ormai assodato che la tragedia poteva essere evitata. Il monte Toc era già franato in tempi storici antichi e i geologi Edoardo Semenza, figlio del costruttore della diga, e Leopold Müller avevano sconsigliato fin da principio la costruzione di una diga sulle pendici di tale rilievo. Lo sbarramento fu realizzato lo stesso, con grande entusiasmo della società SADE (poi divenuta Enel), che si vantava per le dimensioni dell’opera, infatti era la più alta al mondo a doppio arco, per il volume d’acqua che il bacino poteva contenere e per la quantità di energia elettrica che se ne poteva ricavare. Pochi si preoccuparono delle cariche esplosive piazzate per la creazione dello spazio necessario. L’Istituto ignorava, o finse di ignorare, il pericolo. Ma quelle detonazioni resero più instabile un sito già a rischio.
L’opera venne portata a compimento nel 1960 e l’invaso fu riempito al massimo livello. Poco tempo dopo la terra cominciò a mostrare segni di cedimento: si notavano frane e smottamenti sulle pendici del monte Toc, si avvertivano rumori e terremoti. La popolazione era spaventata, anche dal movimento sospetto degli animali, che probabilmente percepivano ancora meglio le vibrazioni del terreno. Fu il periodo delle denunce. Tina Merlin in primis raccolse le testimonianze di alcuni abitanti del luogo, pubblicandole su “L’Unità”, ma fu accusata di creare un allarme pubblico ingiustificato e più volte citata in giudizio. Tutto ciò mentre le forze dell’ordine chiedevano verifiche sulla stabilità del monte e della diga e la popolazione fiutava sempre più distintamente l’odore del pericolo.
Le perizie tecniche di alcuni esperti della società costruttrice avevano confermato il rischio di frana, ma tutto era stato messo a tacere, i documenti sepolti negli archivi più segreti del sistema o modificati nei risultati per placare l’opinione pubblica. Soltanto dopo molti anni sarebbero riapparsi i responsi reali delle simulazioni realizzate in laboratorio. Dopo anni sarebbero riemerse le prove che quella tragedia si poteva evitare. Ma tutti sappiamo come sono andate le cose nel frattempo.
Foto di: Silvia Salgari e Filippo Zerman per progetto I.L.I.E.
Testo di: Michele Tonin per progetto I.L.I.E.
Il presente articolo è stato pubblicato per la prima volta su questo sito nel mese di ottobre 2013