Con lo staff del progetto I.L.I.E. ed altri sostenitori mi sono recata in visita a Longarone, per la seconda volta, il 9 giugno scorso. E per la seconda volta siamo stati accompagnati da due guide d’eccezione: Micaela Coletti e Gino Mazzorana, rispettivamente presidente e vice-presidente del Comitato dei Sopravvissuti, entrambi rimasti sotto le macerie quel 9 ottobre 1963 e miracolosamente scampati alla tragedia.

I due testimoni ci hanno mostrato alcuni luoghi del ricordo, raccontandoci la loro esperienza e manifestando le loro perplessità sugli eventi accaduti prima e dopo la terribile frana.

Sono rimasta tremendamente scioccata ed amareggiata quando ho scoperto che il cedimento era stato previsto. Le analisi, le simulazioni, gli studi realizzati nel corso di quegli anni (sia prima, che durante la costruzione della diga) avevano ipotizzato il pericolo. Che il monte Toc sarebbe crollato era praticamente certo. Ma la maggior parte degli esperti pensava che la frana si sarebbe spezzata in due parti, scivolando nell’acqua del bacino piuttosto dolcemente, senza oltrepassare la diga, senza creare grossi problemi agli insediamenti. Non fu così.

E pensare che per costruire l’opera la SADE aveva espropriato la vallata, costringendo intere famiglie ad abbandonare il proprio terreno, a trovare altri prati per il pascolo del bestiame, a lasciare le proprie radici. La realizzazione della diga aveva portato con sé sofferenze fin da principio.

Dalle parole di Micaela e di Gino abbiamo scoperto che pochi giorni prima della frana i segnali del crollo erano ormai evidenti. La strada sul monte Toc si era abbassata di qualche metro, i picchetti illuminati, posizionati per monitorare la situazione anche di notte, rivelavano il movimento del terreno; ovunque si aprivano profonde crepe, i boati e le scosse si percepivano continuamente. Molti tecnici addetti al controllo, che operavano proprio sul coronamento della diga, erano preoccupati, si rendevano conto che il pericolo era imminente. Le telefonate da e verso il centro operativo si fecero sempre più frequenti, ma dall’alto giungevano avventate rassicurazioni.

Micaela ha riferito che il giorno della tragedia, poiché la situazione era divenuta allarmante, fu diramato l’ordine di evacuazione per i paesi di Erto e Casso, situati sopra la diga. Per cause sconosciute, però, l’avviso di sgomberare anche Longarone si fermò a Belluno. Quante vite si sarebbero potute salvare con una semplice telefonata? Ecco perché Tina Merlin, prima, e Marco Paolini, in seguito, hanno definito il fatto non come “disastro”, ma come un vero e proprio “olocausto”.

Micaela Coletti è una donna forte, determinata, pungente e battagliera. Eppure, quando ha raccontato i terribili momenti della frana, non è stata in grado di guardarci negli occhi. In entrambi gli incontri che abbiamo avuto, Micaela ha cercato, per quanto possibile, di riferire le sensazioni fisiche e le emozioni provate durante l’allagamento; ma si è sottratta al nostro sguardo. Perché non si può rivivere un orrore del genere e condividerlo con chi non ne ha fatto parte.

Per lo stesso motivo e per ragioni di rispetto, non riporto in questo testo la percezione di quei lunghissimi quattro minuti. Posso solo ricordare l’improvviso bagliore che a detta di molti superstiti illuminò a giorno la vallata, il tremendo boato, lo spostamento d’aria superiore a quello provocato da due bombe atomiche di Hiroshima. Micaela fu strappata via dal suo letto, dalla sua casa che scomparve nel nulla, fece un volo di trecento metri e rimase quasi completamente sepolta dal fango. Lo stesso avvenne a molti suoi compaesani, che non riuscirono a vedere la fine della partita Real Madrid-Glasgow Rangers.

Micaela perse tutta la sua famiglia e soltanto il corpo del padre venne ritrovato. La commozione della donna nel mostrarci la fotografia del cadavere mi ha riportato alla realtà. Perché il resoconto era talmente inconcepibile da poter sembrare un racconto dell’orrore. La testimone ha proseguito narrando il ritrovamento del suo corpicino sotto la terra, il ricovero in ospedale durato qualche mese, la lenta riabilitazione. Dalle sue parole abbiamo capito che negli anni seguenti la sua mente ha cercato di difendersi oscurando quel periodo. Tra l’altro, nessuno ha parlato più della frana. Per molto tempo le Istituzioni e gli stessi sopravvissuti hanno taciuto; la ricostruzione è avvenuta in silenzio, forse per la necessità di dimenticare il dolore. A un certo punto, Micaela stessa è giunta a pensare che tutto fosse stato un terribile incubo. Non poteva essere accaduto davvero un simile orrore.

Poi è arrivata la denuncia di Marco Paolini. Con il monologo del 1997 l’attore ha riscosso finalmente le coscienze, ha riportato in luce la tragedia e ha sollevato i dubbi sul processo che aveva lasciato impuniti i colpevoli. Soltanto allora Micaela ha ricordato tutto. Solo allora è riemerso il dolore che aveva rimosso e si è trasformato in desiderio di denunciare l’accaduto, di ottenere finalmente giustizia.

Sì perché la giustizia non c’era stata. Micaela, che allora era una ragazzina rimasta orfana, aveva ottenuto un risarcimento dei danni assurdo, assolutamente esiguo ed insignificante rispetto alla perdita. Per effetto di leggi tanto irrazionali quanto disumane, i bambini non godevano di adeguati diritti. E se a loro mancavano i diritti, agli adulti venne a mancare la parola. Infatti la società costruttrice offrì risarcimenti più cospicui a chi si asteneva dalla denuncia. Tralascio di commentare un simile scandalo. Ovviamente non biasimo quelli che, avendo perso tutto, accettarono tali condizioni; ma non nascondo che mi viene ancora la pelle d’oca al pensiero.

Il disastro annunciato, il mancato ordine di evacuazione, i documenti nascosti, il processo spostato lontano, il caso “insabbiato”, i testimoni comprati… tutto sembra quadrare e trovare spiegazione in quell’odiosa parola: olocausto. Forse ha ragione Micaela, quando afferma di essere una testimone scomoda, quando fa intuire che la SADE avrebbe preferito uccidere tutti, sgravandosi dal peso del processo. Ecco perché lei ha fatto della denuncia la sua missione. Ecco perché porta ancora dentro un trauma irrisolto, un dolore senza fine e il rancore, più che giustificato, verso i responsabili.

Negli incontri con i sopravvissuti, la pacata sofferenza di Gino è compensata dalla forza invettiva di Micaela. Entrambi erano ragazzini quando accadde l’evento ed entrambi fanno ancora i conti con le ombre del passato. Il loro modo di esprimere il dolore è nettamente diverso, ma tutti e due lasciano trasparire dal colloquio un’irrefrenabile collera verso le Istituzioni. Vediamo di capire perché.

Differentemente da quanto accadde a Gino, come si è detto i corpi dei famigliari di Micaela (eccetto quello del padre) non vennero mai rinvenuti. Poca importanza si attribuiva alla psicologia e non venne fornito alcun aiuto per superare lo shock. Così la giovane trovò i nomi della mamma, della sorellina e della nonna nella lista dei defunti prima di ricevere qualsiasi altra comunicazione ufficiale.

A ciò si lega il fatto ancora più scabroso relativo alla sepoltura. Il cimitero di Fortogna, allestito in fretta e furia dopo il disastro sul primo tratto pianeggiante rimasto integro, era inizialmente adeguato e rispettoso. Ogni famiglia aveva provveduto ad apporre sulle proprie tombe lapidi personali, complete di nominativi e fotografie. Solo le sepolture anonime erano tutte uguali: una distesa di croci bianche, che davano immediatamente l’idea di quanti fossero i corpi non identificati. E, come in tutti i campisanti, era possibile lasciare dei fiori sui sepolcri.

Dopo la ristrutturazione del 2004 la situazione è cambiata notevolmente. Oggi il luogo appare come un immenso giardino, costellato di cippi bianchi tutti uguali, ordinato, pulito, candido nella sua sacralità. Però non è più possibile cogliere a prima vista la differenza tra le tombe nominate e quelle anonime; oltretutto sulle lapidi non compaiono più le fotografie, mediatori visivi di grande impatto. Per riuscire a leggere le incisioni scolpite sugli steli è necessario percorrere i singoli corridoi. Inoltre, per ragioni di decoro, vige il divieto di apporre fiori sulle tombe. Incredibile!

Ma sentite il peggio. Esibendo delle foto scattate nel periodo dei lavori, Micaela e Gino fanno trapelare il sospetto che i nominativi sui cippi siano stati scambiati e che le intestazioni sulle tombe non corrispondano alle identità delle salme. Tant’è vero che molti sopravvissuti, avendo percorso per anni lo stesso tragitto dall’ingresso alle tombe dei propri cari, ora, quando ripetono gli stessi passi imparati a memoria, si ritrovano qualche fila più indietro alla pietra che ne porta il nome. Se è vero che è stato commesso un errore del genere, lo trovo scandaloso, mortificante e assolutamente lesivo della dignità sia dei defunti che dei superstiti! Immagino che per Micaela sia già abbastanza straziante vedere affiancate le tombe che riportano i nominativi di tutta la famiglia, sapendo che alcuni corpi non sono stati ritrovati (e supponendo, quindi, che sotto a quei cippi ci siano i cadaveri di altre persone scomparse)… ma aver smarrito anche l’unica sepoltura certa, deve essere veramente insopportabile!

Che dire poi del nuovo ingresso del camposanto? È stato architettato con una forma che ricorda la diga e che ogni volta rinnova il dolore nelle persone che, come Micaela e Gino, avrebbero bisogno di lasciarsi tutto alle spalle.

Parlando ancora di edifici sacri, mi ha colpito molto la chiesa di Longarone, ricostruita quasi nel punto esatto in cui sorgeva precedentemente al disastro. Il fabbricato dalla struttura classica è stato sostituito da uno ricurvo concepito per ricordare l’onda. Tralasciamo il fatto che questa scelta non è stata molto apprezzata dai sopravvissuti. L’esterno dell’edificio è sinuoso e armonico, adeguatamente rappresentativo dell’evento. Il problema è l’interno: una struttura a gradoni concentrici che ricorda tanto uno stadio. Decisamente poco sacro!

Sull’altare, situato al centro, si gioca ogni giorno la difficile partita tra il bisogno di ricordare il dramma e quello, diametralmente opposto, di superare il dolore. Però la sfida è persa in partenza, perché non si combatte contro gli avversari. Quotidianamente Micaela e Gino, come altri eredi della tragedia, vivono quella battaglia dentro di loro, o, per dirla come Tina Merlin, “sulla pelle viva”.

Testo di: Elena Salgari per progetto I.L.I.E.

Foto di: Michele Tonin e Silvia Salgari per progetto I.L.I.E.

Il presente testo è stato pubblicato su questo sito nel mese di ottobre 2013